In casi di avvelenamenti per ingestione di sostanze velenose, caustiche, acide, o di inspirazione di gas tossici, bisogna affrettarsi a chiamare il medico o disporre per un immediato trasporto del malato in un ospedale. In attesa si può e si deve fare qualche cosa di veramente utile.
Per l'ingestione di veleni si somministrano al paziente notevoli quantità di liquidi, acqua o latte, per diluire il veleno nello stomaco e provocare qualche volta il vomito. In caso di vomito la testa va tenuta bassa. Nel caso si tratti di un bambino, lo si terrà in grembo con la testa penzoloni.
Qualora la sostanza velenosa abbia un antidoto ben preciso (lo si può trovare scritto sull'etichetta del recipiente del veleno) lo si utilizzi pure.
mercoledì 16 aprile 2008
Ergonomia scienza del lavoro
La parola ergonomia deriva da quella inglese "ergonomics", coniata nel 1949, ad Oxford da Murrell ed altri ricercatori di formazione culturale biologica e tecnica.
Di recente alcune indagini storiche di settore hanno potuto dimostrare che il polacco Adalbert Jastrzebowski (1779-1882) aveva già proposto nel 1857 un neologismo simile per indicare il rapporto tra l'uomo, la macchina e il suo ambiente naturale. Ergonomia, tradotta letteralmente rispettando l'etimologia greca dei due sostantivi che la compongono, significa legge (nómos) del lavoro (érgon) ma, già da quel tempo, stava a indicare un campo di studi ed applicazioni concernenti le leggi biologiche che regolano i rapporti fra l'uomo e il suo lavoro, l'ambiente che lo circonda e i prodotti che utilizza, siano questi macchine od oggetti di consumo.
Sinonimi di ergonomia, sebbene con talune differenze di contenuto che sopravvivono in rapporto con le circostanze storiche e sociali dei paesi ove sono state coniate, sono ingegneria umana e fattori umani, molto comuni negli Stati Uniti, come pure biotecnologia e biomeccanica introdotti per la prima volta nel nord Europa, tutti comunque intesi ad esprimere una fusione delle discipline biologiche con le discipline tecniche con lo scopo comune di adattare il lavoro, le macchine, gli oggetti entro i limiti operativi dell'uomo.
Il concorso di più discipline e la stretta collaborazione fra i vari specialisti costituiscono il primo aspetto originale dell'ergonomia, una novità che questa introduce nella metodologia delle ricerche che già da molti anni, sebbene separatamente e talora con finalità diverse, sono condotte da ingegneri, progettisti, fisiologi, psicologi e sociologi nel campo del lavoro umano. La storia dell'ergonomia è strettamente legata ai processi di sviluppo che hanno caratterizzato negli ultimi quarant'anni la produzione industriale in Europa, negli Stati Uniti, in Unione Sovietica e in Giappone, assumendo connotazioni e usi diversi anche in rapporto con i modelli culturali e sociali dominanti.
In Europa è stato determinante il contributo delle discipline biologiche e sociali rispetto a quelle tecniche, e tra le prime il ruolo prioritario della fisiologia, della anatomia funzionale, dell'igiene e medicina del lavoro. Di conseguenza, è prevalsa una concezione di tipo organicistico e biomeccanico del sistema uomo-macchina-ambiente, mentre le ricerche e le applicazioni della psicologia si sono sviluppate per la massima parte nel settore della selezione del personale, piuttosto che verso una approfondita definizione dei limiti e delle aspirazioni dell'operatore umano, e quindi di un orientamento per la progettazione dei sistemi produttivi rivolta a tenere questi in giusto conto. Nell'ultimo ventennio, un contributo decisivo sui piani culturale ed applicativo è stato fornito dalle iniziative e dai finanziamenti dell'Azione Comunitaria Ergonomica (ACE), nel quadro della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza. Negli Stati Uniti dopo una prima fase legata alle ricerche per il miglioramento dei sistemi di comunicazione e sicurezza dei mezzi di trasporto militari aerei e marittimi, l'ergonomia ha trovato poi un ulteriore impulso nelle indagini e applicazioni che hanno consentito i voli spaziali e la integrità delle funzioni dei cosmonauti. Una penetrazione sempre maggiore è ora in atto nel settore dei trasporti per la riduzione degli infortuni viabilistici, sui prodotti di consumo e le attrezzature d'ufficio; nel settore dell'urbanistica e per la progettazione degli interni, con particolare riferimento alle condizioni richieste dagli invalidi, nei mezzi di comunicazione visiva ed acustica, specie nei sistemi semiautomatizzati per i controlli di processo; infine, nel vasto settore dell'inquinamento ambientale che è ora al centro di molteplici attenzioni e provvedimenti negli USA, con la collaborazione di ecologi, igienisti, urbanisti ed altri specialisti.
Di recente alcune indagini storiche di settore hanno potuto dimostrare che il polacco Adalbert Jastrzebowski (1779-1882) aveva già proposto nel 1857 un neologismo simile per indicare il rapporto tra l'uomo, la macchina e il suo ambiente naturale. Ergonomia, tradotta letteralmente rispettando l'etimologia greca dei due sostantivi che la compongono, significa legge (nómos) del lavoro (érgon) ma, già da quel tempo, stava a indicare un campo di studi ed applicazioni concernenti le leggi biologiche che regolano i rapporti fra l'uomo e il suo lavoro, l'ambiente che lo circonda e i prodotti che utilizza, siano questi macchine od oggetti di consumo.
Sinonimi di ergonomia, sebbene con talune differenze di contenuto che sopravvivono in rapporto con le circostanze storiche e sociali dei paesi ove sono state coniate, sono ingegneria umana e fattori umani, molto comuni negli Stati Uniti, come pure biotecnologia e biomeccanica introdotti per la prima volta nel nord Europa, tutti comunque intesi ad esprimere una fusione delle discipline biologiche con le discipline tecniche con lo scopo comune di adattare il lavoro, le macchine, gli oggetti entro i limiti operativi dell'uomo.
Il concorso di più discipline e la stretta collaborazione fra i vari specialisti costituiscono il primo aspetto originale dell'ergonomia, una novità che questa introduce nella metodologia delle ricerche che già da molti anni, sebbene separatamente e talora con finalità diverse, sono condotte da ingegneri, progettisti, fisiologi, psicologi e sociologi nel campo del lavoro umano. La storia dell'ergonomia è strettamente legata ai processi di sviluppo che hanno caratterizzato negli ultimi quarant'anni la produzione industriale in Europa, negli Stati Uniti, in Unione Sovietica e in Giappone, assumendo connotazioni e usi diversi anche in rapporto con i modelli culturali e sociali dominanti.
In Europa è stato determinante il contributo delle discipline biologiche e sociali rispetto a quelle tecniche, e tra le prime il ruolo prioritario della fisiologia, della anatomia funzionale, dell'igiene e medicina del lavoro. Di conseguenza, è prevalsa una concezione di tipo organicistico e biomeccanico del sistema uomo-macchina-ambiente, mentre le ricerche e le applicazioni della psicologia si sono sviluppate per la massima parte nel settore della selezione del personale, piuttosto che verso una approfondita definizione dei limiti e delle aspirazioni dell'operatore umano, e quindi di un orientamento per la progettazione dei sistemi produttivi rivolta a tenere questi in giusto conto. Nell'ultimo ventennio, un contributo decisivo sui piani culturale ed applicativo è stato fornito dalle iniziative e dai finanziamenti dell'Azione Comunitaria Ergonomica (ACE), nel quadro della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza. Negli Stati Uniti dopo una prima fase legata alle ricerche per il miglioramento dei sistemi di comunicazione e sicurezza dei mezzi di trasporto militari aerei e marittimi, l'ergonomia ha trovato poi un ulteriore impulso nelle indagini e applicazioni che hanno consentito i voli spaziali e la integrità delle funzioni dei cosmonauti. Una penetrazione sempre maggiore è ora in atto nel settore dei trasporti per la riduzione degli infortuni viabilistici, sui prodotti di consumo e le attrezzature d'ufficio; nel settore dell'urbanistica e per la progettazione degli interni, con particolare riferimento alle condizioni richieste dagli invalidi, nei mezzi di comunicazione visiva ed acustica, specie nei sistemi semiautomatizzati per i controlli di processo; infine, nel vasto settore dell'inquinamento ambientale che è ora al centro di molteplici attenzioni e provvedimenti negli USA, con la collaborazione di ecologi, igienisti, urbanisti ed altri specialisti.
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Sostanze chimiche e disturbi del sistema nervoso
Non si può chiudere il discorso sui rapporti tra lavoro e salute psichica senza ricordare che disturbi del sistema nervoso centrale e quindi delle facoltà mentali possono venir provocati anche da talune sostanze chimiche. Non solo il solfuro di carbonio e il piombo possono causare avvelenamenti pericolosi per la sfera psichica ma anche molte altre sostanze: disturbi lievi, insonnia, turbe dell'umore, possono essere determinati dagli alcol, dall'etere etilico, dall'anidride carbonica, dal cloruro di metile, dagli esteri fosforici, dal tetracloruro di carbonio. Sintomatologie più gravi (eccitazione, stati deliranti, o maniacali, allucinazioni ovvero depressione o stati ipocondriaci) possono nascere da intossicazioni conseguenti l'inalazione massiva o prolungata di arsenico, benzolo, benzina, bromuro di metile, idrogeno solforato, petrolio, trielina. Tutte sostanze appartenenti al secondo gruppo di fattori nocivi, quello che rappresenta una crescente minaccia per la salute umana, perché largamente presente nell'ambiente di lavoro.
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sostanze chimiche
Malattie psicosomatiche e medicina psicosomatica
L'affaticamento mentale può modificare profondamente il comportamento individuale e la vita di relazione. Mentre la vecchia fatica muscolare rendeva l'uomo desideroso di riposo fisico, ma non abulico o indifferente verso altri interessi (la lettura di un libro o del giornale, la conversazione in famiglia, qualche attività che richiedesse la sua partecipazione intellettuale), oggi la stanchezza mentale fa sì che alla sera il lavoratore si abbandoni passivamente, magari davanti alla televisione, o resti chiuso in sé, silenzioso, isolato, o addirittura irritato o irritabile per ciò che, anche in famiglia, accade intorno a lui.
Questa condizione è spesso accompagnata da altri segnali negativi, non tutti tempestivamente avvertiti dall'interessato (e tantomeno ricollegati a cause lavorative): calo di memoria, insonnia, impotenza o frigidità sessuale, improvvisi mutamenti d'umore, stati d'ansia. Questi campanelli d'allarme segnalano l'iniziale rottura dell'equilibrio psicologico; se non si interviene tempestivamente e non tanto con medicine quanto con l'allontanamento temporaneo dell'attività, con interventi sull'ambiente e sull'organizzazione del lavoro possono nascere forme psichiche più o meno gravi, che tra l'altro non sono riconosciute malattie professionali dalla legge assicurativa.
Un turbato equilibrio psichico può generare anche malattie piscosomatiche tipo gastriti, ulcere, coliti, forme d'asma o di eczema, fatti cardiaci o artritici che, pur presentando i comuni sintomi propri di tali malattie, traggono la loro origine non da agenti patogeni o da intossicazioni, ma da fattori psicogeni, ricollegabili appunto a cattive condizioni di lavoro. Molti lavoratori non ammettono che quella tensione, quell'ansia, quell'insoddisfazione, a loro ben note, siano causa di turbe psichiche o addirittura di disturbi o di malattie fisiche. Negano soprattutto di aver ridotto il loro impegno lavorativo o, peggio, cercato scuse ed occasioni per allontanarsene.
La medicina psicosomatica ha documentato l'origine psicogena di certe malattie un tempo ritenute organiche, e ha accertato che non meno di una colite o di una forma cardiaca d'altra natura, anche quelle di origine psichica hanno assoluto bisogno di cure: non sono quindi malattie immaginarie, ma vere e proprie forme morbose che, lasciate senza adeguata terapia, possono aggravarsi e procurare più serie conseguenze. Queste malattie, questi disturbi dell'efficienza psichica sono conseguenze di una condizione di disadattamento nei confronti di un lavoro sempre più spersonalizzato e sempre meno a misura d'uomo. Il lavoratore si sente infatti costretto a ritmi e movimenti disposti da un'altrui volontà: mortificato nella sua dignità di produttore, finisce con l'essere una semplice appendice della macchina. Ogni innovazione tecnologica dalla cui realizzazione il lavoratore viene quasi sempre escluso determina nell'uomo un impegno di adattamento alla nuova condizione, e poiché i mutamenti sono in tal campo continui, egli finisce con l'essere sempre in ritardo rispetto alle modificazioni imposte dal progresso e sempre in tensione per riuscire ad adeguarvisi. Molte e complesse sono le cause dell'affaticamento in un lavoro ancora prevalentemente manuale e non automatizzato, come è quello dell'attuale fase di sviluppo tecnologico del nostro paese. È assai probabile tuttavia che molta parte abbiano quelle condizioni negative che gli stessi lavoratori denunciano, e che appartengono al quarto gruppo (pericoli per l'equilibrio neuropsichico). Quasi sempre, nell'ambiente di lavoro, non vengono tenute in considerazione le effettive capacità del lavoratore, né la sua creatività, o la sua intelligenza e la sua volontà di realizzarsi attraverso l'attività. Spesso i ritmi lavorativi sono predeterminati e sempre uguali, contrariamente a quelli biologici che variano nell'arco della giornata, e troppo veloci.
In genere il lavoratore ha scarsa conoscenza del completo ciclo produttivo e difficilmente riesce a rendersi conto dell'importanza e del significato della propria mansione, che appare così sciocca e priva di senso : raramente può prendere decisioni autonome o sentirsi responsabilizzato, o mettere qualcosa di suo in ciò che fa. Questo complesso di fattori determina forme di disaffezione e di frustrazione, di noia, monotonia; in una parola, di alienazione.
Questa condizione è spesso accompagnata da altri segnali negativi, non tutti tempestivamente avvertiti dall'interessato (e tantomeno ricollegati a cause lavorative): calo di memoria, insonnia, impotenza o frigidità sessuale, improvvisi mutamenti d'umore, stati d'ansia. Questi campanelli d'allarme segnalano l'iniziale rottura dell'equilibrio psicologico; se non si interviene tempestivamente e non tanto con medicine quanto con l'allontanamento temporaneo dell'attività, con interventi sull'ambiente e sull'organizzazione del lavoro possono nascere forme psichiche più o meno gravi, che tra l'altro non sono riconosciute malattie professionali dalla legge assicurativa.
Un turbato equilibrio psichico può generare anche malattie piscosomatiche tipo gastriti, ulcere, coliti, forme d'asma o di eczema, fatti cardiaci o artritici che, pur presentando i comuni sintomi propri di tali malattie, traggono la loro origine non da agenti patogeni o da intossicazioni, ma da fattori psicogeni, ricollegabili appunto a cattive condizioni di lavoro. Molti lavoratori non ammettono che quella tensione, quell'ansia, quell'insoddisfazione, a loro ben note, siano causa di turbe psichiche o addirittura di disturbi o di malattie fisiche. Negano soprattutto di aver ridotto il loro impegno lavorativo o, peggio, cercato scuse ed occasioni per allontanarsene.
La medicina psicosomatica ha documentato l'origine psicogena di certe malattie un tempo ritenute organiche, e ha accertato che non meno di una colite o di una forma cardiaca d'altra natura, anche quelle di origine psichica hanno assoluto bisogno di cure: non sono quindi malattie immaginarie, ma vere e proprie forme morbose che, lasciate senza adeguata terapia, possono aggravarsi e procurare più serie conseguenze. Queste malattie, questi disturbi dell'efficienza psichica sono conseguenze di una condizione di disadattamento nei confronti di un lavoro sempre più spersonalizzato e sempre meno a misura d'uomo. Il lavoratore si sente infatti costretto a ritmi e movimenti disposti da un'altrui volontà: mortificato nella sua dignità di produttore, finisce con l'essere una semplice appendice della macchina. Ogni innovazione tecnologica dalla cui realizzazione il lavoratore viene quasi sempre escluso determina nell'uomo un impegno di adattamento alla nuova condizione, e poiché i mutamenti sono in tal campo continui, egli finisce con l'essere sempre in ritardo rispetto alle modificazioni imposte dal progresso e sempre in tensione per riuscire ad adeguarvisi. Molte e complesse sono le cause dell'affaticamento in un lavoro ancora prevalentemente manuale e non automatizzato, come è quello dell'attuale fase di sviluppo tecnologico del nostro paese. È assai probabile tuttavia che molta parte abbiano quelle condizioni negative che gli stessi lavoratori denunciano, e che appartengono al quarto gruppo (pericoli per l'equilibrio neuropsichico). Quasi sempre, nell'ambiente di lavoro, non vengono tenute in considerazione le effettive capacità del lavoratore, né la sua creatività, o la sua intelligenza e la sua volontà di realizzarsi attraverso l'attività. Spesso i ritmi lavorativi sono predeterminati e sempre uguali, contrariamente a quelli biologici che variano nell'arco della giornata, e troppo veloci.
In genere il lavoratore ha scarsa conoscenza del completo ciclo produttivo e difficilmente riesce a rendersi conto dell'importanza e del significato della propria mansione, che appare così sciocca e priva di senso : raramente può prendere decisioni autonome o sentirsi responsabilizzato, o mettere qualcosa di suo in ciò che fa. Questo complesso di fattori determina forme di disaffezione e di frustrazione, di noia, monotonia; in una parola, di alienazione.
I rischi professionali imprenditori lavoratori
La gravità del fenomeno infortunistico pone molti problemi non solo agli imprenditori ed ai lavoratori, ma all'intera collettività, poiché un 'organica opera di prevenzione presuppone sia l'attuazione di misure di igiene e sicurezza nell'ambiente di lavoro, sia la promozione di iniziative fuori dall'azienda, tipo l'addestramento professionale, la creazione di servizi socio-sanitari, la realizzazione di una adeguata rete di trasporti pubblici e via dicendo. In ogni caso l'elaborazione di un programma contro gli infortuni e le tecnopatie richiede la conoscenza delle cause di questi eventi lesivi, cosa non sempre facile: può succedere infatti di ritenere come reali cause solo occasionali. In altre parole, la lettura di certi dati statistici può non solo non dare un quadro esatto della realtà, ma addirittura portare fuori strada. Sapere, ad esempio, che un certo numero di infortuni è dovuto alla caduta di un lavoratore da una scala non basta: occorre conoscere se quell'evento dipende da un malore dell'operaio o dalla rottura di un piolo già incrinato poiché, a seconda dei casi, ovviamente, le misure da prendere sono assai differenti. Sapere che gli infortuni avvengono più frequentemente in un certo mese o a una certa ora, non è sufficiente: è necessario avere le notizie relative alla temperatura non di quel mese ma dell'azienda dove l'incidente è avvenuto e informarsi se in quella certa ora della giornata è più o meno frequente il lavoro straordinario. È proprio a causa della difficoltà di definire con una certa sicurezza le cause del fenomeno infortunistico che vi è sempre stata una certa polemica fra lavoratori ed imprenditori a proposito di responsabilità. I primi accusavano i secondi di subordinare le leggi di igiene e sicurezza a quelle del profitto, mentre questi accusavano quelli di colpevole disattenzione. Oggi però la scienza ha finito per dimostrare false sia le teorie che addebitavano la maggior parte degli infortuni ad una sorta di predisposizione congenita all'incidente di taluni operai, sia quelle che attribuivano massima importanza al fattore umano, considerato come una particolare condizione individuale che, turbando il corretto equilibrio psico-fisico, poteva mettere il lavoratore in una condizione di maggior esposizione al rischio. Teorie che, nell'uno e nell'altro caso, cercavano di sminuire l'importanza dei fattori tecnici, delle macchine insicure, degli ambienti scarsamente igienici, di una legislazione antinfortunistica inadeguata e mal applicata, del mancato rispetto della fisiologia e della psicologia umana.
Infortuni e malattie professionali
Un dato è certo: il pericolo si annida nell'ambiente di lavoro. Pericolo di infortunio, di malattia professionale, di malattie specifiche, di affaticamento, di disadattamento, di turbe nel sistema neuropsichico. Si è già avuto modo di rilevare come l'influenza che l'ambiente lavorativo può avere sulla salute derivi, tra l'altro, dal fatto che l'uomo trascorre in fabbrica, in ufficio, nei campi o impegnato in attività domestiche, la maggior parte della sua giornata attiva. Ma un'altra considerazione può essere fatta per sottolineare come tale influenza, in questi ultimi decenni, abbia accresciuto la sua importanza. Per millenni, si può dire fino all'avvento dell'era antibiotica, i principali fattori responsabili della morbilità e della mortalità umana sono stati microrganismi patogeni.
Oggi la situazione è diversa: la diffusione di una maggiore coscienza igienico-sanitaria, l'estensione dell'assistenza di malattia e il progresso farmacologico hanno determinato una netta diminuzione delle malattie infettive; i fattori socio-ambientali sono diventati quindi i maggiori responsabili della morbosità. Gran parte delle malattie cardiocircolatorie, dei tumori, delle forme mentali, delle allergie, delle obesità, dei traumatismi e via dicendo, trovano una diretta responsabilità, o quanto meno una concausa, nella fitta rete di agenti socio-ambientali (inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, lavoro pericoloso e nocivo, sofisticazioni alimentari e malnutrizione, traffico convulso, scarsità di moto, tensione della vita moderna, etc...). È in questa cornice che si pone la specifica pericolosità dell'ambiente lavorativo dove impianti e organizzazione del lavoro sono finalizzati maggiormente alle necessità produttive che alle esigenze biologiche del lavoratore, dove il ritmo lavorativo non è sempre sovrapponibile a quello individuale, dove vengono impiegate nuove sostanze chimiche di cui non sono magari mai state studiate le possibili conseguenze sull'organismo umano. Tale pericolosità non è solo teorica ma è purtroppo una realtà quotidiana, come dimostra la gravità del fenomeno infortunistico.
Oggi la situazione è diversa: la diffusione di una maggiore coscienza igienico-sanitaria, l'estensione dell'assistenza di malattia e il progresso farmacologico hanno determinato una netta diminuzione delle malattie infettive; i fattori socio-ambientali sono diventati quindi i maggiori responsabili della morbosità. Gran parte delle malattie cardiocircolatorie, dei tumori, delle forme mentali, delle allergie, delle obesità, dei traumatismi e via dicendo, trovano una diretta responsabilità, o quanto meno una concausa, nella fitta rete di agenti socio-ambientali (inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, lavoro pericoloso e nocivo, sofisticazioni alimentari e malnutrizione, traffico convulso, scarsità di moto, tensione della vita moderna, etc...). È in questa cornice che si pone la specifica pericolosità dell'ambiente lavorativo dove impianti e organizzazione del lavoro sono finalizzati maggiormente alle necessità produttive che alle esigenze biologiche del lavoratore, dove il ritmo lavorativo non è sempre sovrapponibile a quello individuale, dove vengono impiegate nuove sostanze chimiche di cui non sono magari mai state studiate le possibili conseguenze sull'organismo umano. Tale pericolosità non è solo teorica ma è purtroppo una realtà quotidiana, come dimostra la gravità del fenomeno infortunistico.
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