Numerose ricerche anche recenti hanno contribuito a meglio conoscere il vasto capitolo delle malformazioni congenite, soprattutto per quanto riguarda la eziopatogenesi. D'altro canto, i recenti progressi della chirurgia plastica hanno permesso di correggere molti errori della natura in modo da inserire nella società individui che prima ne erano dolorosamente esclusi.
Per quanto un'esatta valutazione dell'effettiva frequenza delle malformazioni congenite sia difficilmente attuabile, sembra che il numero dei nati con anomalie di questo tipo sia del 2-3 per cento e forse più, come affermano recenti statistiche di autori americani e giapponesi.
lunedì 28 aprile 2008
Cheloidi
Quando un organismo subisce un trauma che comporta una ferita con o senza perdita di sostanza si instaurano complessi fenomeni che conducono alla riparazione completa della lesione con il formarsi della cicatrice. Le tappe attraverso le quali si giunge alla cicatrice sono simili a quelle delle infiammazioni: da principio si ha un aumento di apporto sanguigno con neoformazioni vascolari che favoriscono l'ossigenazione dei tessuti e l'asportazione delle parti necrotiche estranee con gli elementi della serie bianca e i macrofagi.
Segue a questa prima fase la vera riparazione con la costituzione di un nuovo tessuto, detto di granulazione, che è molto ricco di cellule e vasi sanguigni; con il passare del tempo alle cellule si sostituisce il tessuto connettivale ricco di fibre collagene, ma non elastiche, che alla fine caratterizza il tessuto cicatriziale. Quando la cicatrice è giovane si presenta rossa o rosa perché sono ancora presenti vasi sanguigni, che man mano scompaiono determinando la cicatrice stabilizzata bianca, più o meno retraente.
Il buon esito cicatriziale dipende da molti fattori: dalle condizioni generali del paziente, dalla lesione da riparare e anche dalla corretta terapia instaurata dal chirurgo.
In alcuni individui particolarmente reattivi, il processo di riparazione cicatriziale può essere molto violento e condurre alla formazione di cicatrici ipertrofiche o cheloidi. Questi si manifestano come tumefazioni cordoniformi, a volte con ramificazioni a forma di granchio (da cui il nome), ricoperte da un sottile strato epidermico liscio. E nota la straordinaria frequenza di insorgenza dei cheloidi sulle lesioni da ustione o causticazione; essi possono porre seri problemi estetico-funzionali di non facile soluzione.
Tuttavia prima di dire che una cicatrice si è trasformata in un cheloide bisogna lasciar trascorrere almeno sei mesi. Il loro trattamento è spesso combinato e si avvale dell'opera del chirurgo plastico, che li asporta o risutura nel modo più congruo, e del dermatologo che con opportuni trattamenti antireattivi fa in modo che non si riformino.
Segue a questa prima fase la vera riparazione con la costituzione di un nuovo tessuto, detto di granulazione, che è molto ricco di cellule e vasi sanguigni; con il passare del tempo alle cellule si sostituisce il tessuto connettivale ricco di fibre collagene, ma non elastiche, che alla fine caratterizza il tessuto cicatriziale. Quando la cicatrice è giovane si presenta rossa o rosa perché sono ancora presenti vasi sanguigni, che man mano scompaiono determinando la cicatrice stabilizzata bianca, più o meno retraente.
Il buon esito cicatriziale dipende da molti fattori: dalle condizioni generali del paziente, dalla lesione da riparare e anche dalla corretta terapia instaurata dal chirurgo.
In alcuni individui particolarmente reattivi, il processo di riparazione cicatriziale può essere molto violento e condurre alla formazione di cicatrici ipertrofiche o cheloidi. Questi si manifestano come tumefazioni cordoniformi, a volte con ramificazioni a forma di granchio (da cui il nome), ricoperte da un sottile strato epidermico liscio. E nota la straordinaria frequenza di insorgenza dei cheloidi sulle lesioni da ustione o causticazione; essi possono porre seri problemi estetico-funzionali di non facile soluzione.
Tuttavia prima di dire che una cicatrice si è trasformata in un cheloide bisogna lasciar trascorrere almeno sei mesi. Il loro trattamento è spesso combinato e si avvale dell'opera del chirurgo plastico, che li asporta o risutura nel modo più congruo, e del dermatologo che con opportuni trattamenti antireattivi fa in modo che non si riformino.
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Cheloidi
Le protesi chirurgia plastica
Fin dai primordi della chirurgia plastica e della medicina in genere, si è sentita la necessità di sopperire alla mancanza o perdita di parti anatomiche con l'applicazione di materiale estraneo. Vennero sperimentati vari tipi di materiale, ma la maggior parte di essi furono abbandonati per gli inconvenienti che determinavano.
Le caratteristiche che dovrebbe avere questo materiale protesico detto alloplastico sono:
• essere biologicamente inerte, cioè non creare disturbi nell'organismo ricevente,
• non provocare reazioni allergiche,
• non avere potere oncogeno,
• essere sterile o facilmente sterilizzabile,
• avere forma e resistenza adeguate alla zona di applicazione e all'uso richiesto.
Tra i materiali che, totalmente o in parte, rispondono a questi requisiti e sono quindi usati si trovano:
• la paraffina, oggi abbandonata per le reazioni infiammatorie e pseudotumorali che determinava;
• i metalli, specie tantalio e vitallio utilizzati in ortopedia per viti, chiodi e placche;
• i materiali polivinilici tipo poliuretano, che però qualche volta possono dare abnormi reazioni tissutali;
• le resine acriliche;
• il nylon , molto ben tollerato;
• i siliconi; il loro impiego in chirurgia"plastica è molto diffuso anche per le possibilità di ottenere materiali a diversa consistenza.
Le applicazioni sono le più varie: dalle plastiche facciali a quelle mammarie, che si avvalgono o di spugne o di un involucro contenente gel di silicone. I risultati sono buoni e la protesi ha la consistenza caratteristica della mammella normale.
Per ovviare a grossi difetti fisici o a mutilazioni si usano materiali di foggia adatta chiamati epitesi. Essi devono avere le caratteristiche morfologiche ed estetiche, quindi di consistenza, colore, aspetto, identiche o il più simile possibile a quelle della parte mancante; inoltre devono essere duraturi e non subire variazioni, ad esempio di colore, con il passare del tempo.
Le caratteristiche che dovrebbe avere questo materiale protesico detto alloplastico sono:
• essere biologicamente inerte, cioè non creare disturbi nell'organismo ricevente,
• non provocare reazioni allergiche,
• non avere potere oncogeno,
• essere sterile o facilmente sterilizzabile,
• avere forma e resistenza adeguate alla zona di applicazione e all'uso richiesto.
Tra i materiali che, totalmente o in parte, rispondono a questi requisiti e sono quindi usati si trovano:
• la paraffina, oggi abbandonata per le reazioni infiammatorie e pseudotumorali che determinava;
• i metalli, specie tantalio e vitallio utilizzati in ortopedia per viti, chiodi e placche;
• i materiali polivinilici tipo poliuretano, che però qualche volta possono dare abnormi reazioni tissutali;
• le resine acriliche;
• il nylon , molto ben tollerato;
• i siliconi; il loro impiego in chirurgia"plastica è molto diffuso anche per le possibilità di ottenere materiali a diversa consistenza.
Le applicazioni sono le più varie: dalle plastiche facciali a quelle mammarie, che si avvalgono o di spugne o di un involucro contenente gel di silicone. I risultati sono buoni e la protesi ha la consistenza caratteristica della mammella normale.
Per ovviare a grossi difetti fisici o a mutilazioni si usano materiali di foggia adatta chiamati epitesi. Essi devono avere le caratteristiche morfologiche ed estetiche, quindi di consistenza, colore, aspetto, identiche o il più simile possibile a quelle della parte mancante; inoltre devono essere duraturi e non subire variazioni, ad esempio di colore, con il passare del tempo.
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chirurgia plastica,
protesi
trapianti peduncolati - trapianto cutaneo
Si parla invece di trapianti peduncolati (generalmente di cute, di mucosa, muscolo, tendine, ecc) quando un lembo di tessuto viene trasferito nello stesso individuo, a riparare una perdita di sostanza, rimanendo connesso, almeno per un certo periodo, alla regione che lo ha fornito tramite il suo peduncolo nutritizio.
A differenza dell'innesto, il trapianto cutaneo consiste nello staccare solo in parte la massa dei tessuti dalla sede propria alla quale rimane connessa con uno o più peduncoli vascolari.
È indicato quando si deve riparare una perdita di sostanza in una zona con scarsa irrorazione ematica. Numerosi sono i tipi di trapianto peduncolato; di maggior interesse e di più frequente impiego in chirurgia plastica sono quelli di pelle.
Essi si distinguono in:
• lembi di vicinanza, con i quali s'intendono quei trapianti prelevati da regioni vicine a quella da riparare;
• lembi di distanza, che comprendono tutti i trapianti peduncolati scolpiti in una regione distante da quella da riparare.
Questi lembi presentano numerosi vantaggi che permettono di trasferire cute sana e di sicura vitalità in zone compromesse o danneggiate da insulti più diversi.
A differenza dell'innesto, il trapianto cutaneo consiste nello staccare solo in parte la massa dei tessuti dalla sede propria alla quale rimane connessa con uno o più peduncoli vascolari.
È indicato quando si deve riparare una perdita di sostanza in una zona con scarsa irrorazione ematica. Numerosi sono i tipi di trapianto peduncolato; di maggior interesse e di più frequente impiego in chirurgia plastica sono quelli di pelle.
Essi si distinguono in:
• lembi di vicinanza, con i quali s'intendono quei trapianti prelevati da regioni vicine a quella da riparare;
• lembi di distanza, che comprendono tutti i trapianti peduncolati scolpiti in una regione distante da quella da riparare.
Questi lembi presentano numerosi vantaggi che permettono di trasferire cute sana e di sicura vitalità in zone compromesse o danneggiate da insulti più diversi.
1967 l primo trapianto di cuore
Fino al 1968 la chirurgia dei trapianti viene considerata in fase pionieristica; dopo quell'anno c'è un vero e proprio «boom» dei trapianti d'organo, mentre viene delineandosi e consolidandosi fin dall'inizio un'impostazione interdisciplinare della loro preparazione ed esecuzione, nel senso che immunologo, specialista d'organo (il nefrólogo nel caso del rene, il cardiologo nel caso del cuore), chirurgo e anestesista collaborano strettamente, nello studio prima e poi nell'assistenza del paziente.
La realtà dei trapianti d'organo entrò in maniera spettacolare nelle case di tutti dopo che nella notte fra il due e il tre dicembre 1967 il cardiochirurgo Christian Barnard eseguì a Città del Capo il primo trapianto di cuore. Accanto alla enorme portata emotiva dell'evento, colpi fin dall'inizio l'opinione pubblica quanto vi era di azzardato e di aleatorio in quell'atto chirurgico: la sfida non era di ordine tecnico, era di ordine biologico. Per quanto il chirurgo e i suoi collaboratori si impegnino fin dall'inizio, per la buona riuscita del trapianto, a individuare l'organo dalle caratteristiche biologiche più compatibili con l'organismo del ricevente, il loro sforzo durante il decorso post-operatorio e durante tutto il dopo intervento (quindi anche quando il trapiantato è rientrato a casa e ha ripreso la sua vita) consiste nel contrastare la reazione di rigetto.
La realtà dei trapianti d'organo entrò in maniera spettacolare nelle case di tutti dopo che nella notte fra il due e il tre dicembre 1967 il cardiochirurgo Christian Barnard eseguì a Città del Capo il primo trapianto di cuore. Accanto alla enorme portata emotiva dell'evento, colpi fin dall'inizio l'opinione pubblica quanto vi era di azzardato e di aleatorio in quell'atto chirurgico: la sfida non era di ordine tecnico, era di ordine biologico. Per quanto il chirurgo e i suoi collaboratori si impegnino fin dall'inizio, per la buona riuscita del trapianto, a individuare l'organo dalle caratteristiche biologiche più compatibili con l'organismo del ricevente, il loro sforzo durante il decorso post-operatorio e durante tutto il dopo intervento (quindi anche quando il trapiantato è rientrato a casa e ha ripreso la sua vita) consiste nel contrastare la reazione di rigetto.
Trapianti d'organo
II primo trapianto che fu tentato nel corso della storia dell'uomo fu un autotrapianto, ossia l'innesto di un lembo di pelle da un punto a un altro del corpo dello stesso paziente. Solo nel corso di questo secolo, quando il progresso delle tecniche chirurgiche rese possibile il trasferimento di un organo nella sua globalità da un individuo all'altro, ci si rese conto che la riuscita tecnica dell'intervento non bastava ad assicurare il successo del trapianto: tutt'oggi la chirurgia dei trapianti non si trova alle prese con problemi tecnici, che appaiono in gran parte risolti, bensì con problemi biologici e più propriamente immunologici perché si scoprì, quando ancora questo tipo di chirurgia era del tutto sperimentale, che l'organismo ricevente si opponeva alla presenza di un organo proveniente da un altro organismo.
Il problema dei trapianti era allora e rimane oggi il problema della reazione di rigetto. Per la storia il primo trapianto d'organo fu un trapianto sperimentale di rene su animale di laboratorio eseguito nel 1902 da Uhlman. Sotto il profilo tecnico il più grande contributo venne dato a questa chirurgia quale si può benissimo vivere alla condizione di seguire appropriate regole igieniche e comportamentali.
Il problema dei trapianti era allora e rimane oggi il problema della reazione di rigetto. Per la storia il primo trapianto d'organo fu un trapianto sperimentale di rene su animale di laboratorio eseguito nel 1902 da Uhlman. Sotto il profilo tecnico il più grande contributo venne dato a questa chirurgia quale si può benissimo vivere alla condizione di seguire appropriate regole igieniche e comportamentali.
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